L’obiettivo rovesciato di Cecilia Luci di Marco Tonelli
Ogni volta, sempre più ormai, che ci si trova a scrivere di fotografie si deve superare l’imbarazzo di fronte a chi le ha scattate: è un artista che usa fare scatti fotografici o è un fotografo che fa opere d’arte?
Lo stesso discorso poi lo possiamo applicare a chi realizza video: regista o videoartista e praticamente ad ogni altra tecnica o pratica estetica contemporanea.
Cecilia Luci l’ho conosciuta come fotografa e ora diventa sempre più difficile continuare a considerarla tale.
Non perché abbia cambiato tecnica né solo perché ha sviluppato nuovi e altri soggetti. Direi che il passaggio da fotografa ad artista lo dà uno sviluppo progressivo e organico nell’approccio verso il mezzo e l’immagine e i contenuti.
Le prime sue opere che hanno iniziato decisamente a uscire dai limiti del fotografico puro risalgono al 2010-2011: le Costellazioni familiari. Uscire dal fotografico intendo costruire un percorso, individuare dei temi in cui la tecnica non è più rivolta all’esterno di sé ma all’interno.
Se è vero che ogni fotografo, anche il più sprovveduto mette del suo nello scatto, non è detto che ogni fotografo, anche il più tecnicamente esperto, rovesci l’obiettivo dentro di sé.
Nelle opere di Cecilia Luci e nella sequenza tematica di questi ultimi anni, si capisce come la fotografia sia per lei un mezzo per scrivere appunti sulle sue memorie e sulle sue perdite, sulle sue fragilità e sulle sue epifanie. Un racconto diaristico per immagini dove gli oggetti a volte si mostrano per quello che sono, altre per quello che appaiono, altre ancora per quello che sono stati, altre infine forse per quello che saranno. La fragilità a cui alludo, la tenuità di alcune immagini al limite della presenza, l’apparizione di riflessi di luce più pieni dell’oggetto da cui provengono, tutto questo lo chiamo fragile perché ha bisogno di una forza che lo compatti, altrimenti rischia di andare in frantumi, di disperdersi nel liquido che lo contiene.
Made in water appunto! Niente di più instabile e incerto che lavorare nell’acqua. Eppure, nonostante questa aleatorietà, le foto di Cecilia Luci artista sembrano proprio cercare di compattare qualcosa, una storia, che fuori di questo fluido contenitore non troverebbe forse appigli.
Fare nell’acqua per concentrare le immagini, per bloccarle, per fermarle.
Ecco allora che non è lo scattare una foto a fissare l’opera ma l’averlo già fatto componendola dentro dell’acqua. Che diventa elemento mentale e fisiologico.
Da anni ormai l’acqua è per Cecilia Luci contenitore rigido, ordinatore, affermativo di disposizioni che se nell’acqua vivono il loro incerto destino proprio nell’acqua si definiscono. C’è quasi un principio geometrico contenuto nell’acqua che solo l’obiettivo di una macchina fotografica, una inquadratura, può imporre a soggetti tenui e delicati, che non aspirano ad avere cariche simboliche come potrebbe sembrare a volte di fronte a gabbie vuote, pettini, bastoncini dello Shangai o vetri rotti. Né si tratta solo, per rimando, di oggetti presi con incuranza per il loro significato. Diciamo che nell’acqua si risolve un sottile e fragile e delicato equilibrio tra una dimensione pubblica e geometrica ed una intima e privata, in cui l’oggetto protegge i fili, a volte letterali, che lo collegano alla sfera emotiva dell’autrice, riparandoli nell’acqua.
C’è stato come un assottigliamento iconografico di serie in serie a partire dal 2011 nelle opere di Cecilia Luci, di cui questa mostra evidenzia il punto per così dire meno affollato, più trasparente (e i vetri lo dicono in modo letterale), meno opaco, dove le interruzioni della compattezza cromatica della superficie (che ricordiamoci è anche profondità) sono lineari, denti di pettini, quasi segni di matita, appunto filiformi.
Non più ombre né riflessi, né trasparenze date dagli oggetti e dalle loro cromie quasi diluite nel liquido o da geometrie insistite di forme sferiche, queste ultime opere di Cecilia Luci diventano allora lo sguardo rovesciato dentro di sé ma allo stesso tempo reindirizzato verso l’esterno, come se la macchina fotografica fotografasse ora oggetti interni senza più affacciarsi al di là. Come se in apnea dentro il liquido l’obiettivo cercasse qualcosa a cui appigliarsi per non uscire fuori dal corpo dell’autrice. Ecco che quelle presenze filiformi sembrano voler fare da trame, da lacci, da ostacoli per ingabbiare l’obiettivo, senza più illustrare questo tentativo di cattura.
Se una volta erano dei playmobil a impedire fisicamente e figurativamente questa uscita dell’obiettivo dal corpo dell’autrice se non addirittura delle vere e proprio gabbie, ora l’obiettivo sembra non voler uscire dal corpo, sembra essersi fatto corpo trasparente, essersi fatto acqua più che aver fatto immagine grazie ad essa.
La fragilità di queste immagini allora non deve essere vista in modo narrativo (i soggetti tenui nel senso di esili, fragili) ma fisico. È l’immagine fotografica nella sua struttura incorniciata, invetrata perché sotto vetro a evidenziare una fragilità endemica. Forza e debolezza si confondono, i limiti delle immagini sono chiari ma dicono di una impossibilità di intuire la profondità se non addirittura la materia di cui sono fatte.
Se ora cerchiamo il fotografico nelle opere di Cecilia Luci per meglio definirlo alla luce di quanto detto finora, dovremo decidere se accettarlo come principio endogeno rispetto alle immagini oppure esogeno. Nel primo caso, internalizzando il punto di vista come appena proposto, il fotografico scompare a favore di immagini che non hanno quasi sostanza, pure, prive di drammi e inafferrabili. Nel secondo, esternalizzando l’obiettivo come sarebbe più normale fare e come è stato tecnicamente e fisicamente fatto dall’autrice, queste stesse immagini diventano storie fin troppo chiare, lucide, intrichi da poter attraversare, da poter scombinare, geometrie che si combinano per accidente, oggetti.
Tra le sue varie sperimentazioni Cecilia Luci aveva anche utilizzato dei guanti di gomma. Il guanto (che tra le altre cose serve a fare pulizia o a menggiare per non farsi sporcare) si può rovesciare, e rovesciandolo si invertono i punti di vista (destra e sinistra e viceversa). Se in questo oggetto d’uso e funzione fin troppo comuni il rovesciamento era assolutamente didascalico ed ergonomico, diventa ora ancor più evidente che nel caso di Cecilia Luci dovremo parlare di un rovesciamento del fotografico in senso poetico: scatto quello che sono e quello che ho composto (o che si è composto) lo congelo nel liquido!
Diciamo che in questo rovesciamento forse anche l’autrice rovescia se stessa. Queste opere si lasciano scattare a discrezione dell’autrice o vogliono essere scattate imponendosi per le loro valenze psicologiche? Se di rovesciamento parliamo, è chiaro che questo comporta un rovesciare non solo dentro e fuori ma vicino e lontano, passato e presente.
Siamo arrivati forse alla chiave di volta di questo discorso di poetica.
Presente e passato si danno non come assenza e presenza ma come presente che ricalca il passato e che cerca di riannodare dei fili, per far tornare i nodi al pettine e proprio in senso letterale. Esili soggetti non significa soggetti indifferenti ad una storia o a sé stessi ma soggetti fragili, indifferenti alla vista esterna ma altamente sensibili per quella interna. Dove interno è passato che riaffiora al presente e presente ciò che rivive il passato.
Il senso di vuoto intorno a quelle scie tenui, a quei segni non è allora superficie ma lontananza, non è solo una profondità per quanto minima ma un contenitore, una protezione, un teatrino intimo che si fa nella sua totalità macchina fotografica. Ecco realizzato finalmente il rovesciamento dell’obiettivo. È nel corpo dell’autrice che si svolge quel teatro, nel corpo fisico e cerebrale, mentale e psicologico. Ogni scatto non sarà allora una variazione su un tema, ma una scena diversa, una parola detta in più, un atto ulteriore verso la ricostruzione di una storia, la propria storia.
Di rovesciamento in rovesciamento si arriva ad una ordinaria e (doppiamente) nitida metafisica del non più e non solo fotografico che nel caso di Cecilia Luci diventa un modo per pulire i ricordi da rimanenze e permanenze nostalgiche, per filtrarli alla pura luce del visibile obiettivo, quasi facendoli affiorare sull’acqua, dall’acqua per poi finalmente cristallizzarli.
Torna a Testi